
La voce del papà nell’attesa
Durante la gravidanza, tra le voci più significative sotto il profilo relazionale, vi è certamente quella del papà: profonda, intensa, calda, dai toni gravi e penetranti, dal colore e dalla grana diversi da quelli materni. La voce paterna è percepita dal feto come nuova e diversa rispetto a quella vissuta costantemente con la madre, è il fuori del corpo gravido, è altro, è esterno, è il mondo. Sin dalla vita uterina è il fuori, è l’esterno ma non l’estraneo, poiché il padre è in continua comunicazione con la futura mamma ed il figlio. La voce paterna è “ponte e porta” comunicativa verso il mondo e attraverso di essa il nascituro sperimenta precocemente un dentro e un fuori, un interno e un esterno, una presenza e un’assenza. Vive da subito un papà che non ha ancora visto, ma con il quale avvia precocemente la formazione di un forte legame di attaccamento. La voce paterna garantisce, inoltre, la possibilità di relazionarsi con il bimbo attraverso il suono che, con la comunicazione non verbale, favorisce un’adeguata elaborazione delle prime strutture mentali del feto, nonché un primo e significativo contatto con la sfera del linguaggio. La voce paterna, infatti, penetra l’addome e le pareti uterine, raggiungendo il feto meglio di quanto non avvenga con le frequenze più alte della voce materna (1). Per questo si suggerisce ai futuri padri di parlare con il feto, di leggere e di cantare per lui durante il tempo dell’attesa. L’atto canoro paterno è occasione privilegiata per entrare in sintonia con i vissuti materni e fetali, poiché attiva percorsi emotivi e mentali che avvicinano al sentire della gestante e al bambino in divenire (2). Dopo la nascita, la voce paterna dona al figlio equilibrio emotivo, lo quieta e rasserena, lo accompagna a incontrare e a sperimentare il linguaggio “del mondo”.
PAPA’ PARLA CON ME!
Anche dopo la nascita il padre è altro, è colui che parla in modo diverso dalla madre; non si perde in variazioni sonore , non si lascia coinvolgere in dialoghi fatti di parole ridondanti e fitti diminutivi e il bambino impara presto ad adattarsi a due sistemi comunicativi distinti, che si completano a vicenda. “Ripetizioni e godimenti vocalici appartengono al regno materno, mentre la parola e la sua articolazione ritmica nella frase avvengono sotto il segno del padre, che simbolicamente presenzia anche le regole grammaticali di costruzione del periodo e segna l’ingresso del bambino nello spazio sociale”(3). Il linguaggio paterno è diverso, si differenzia da quello materno nei confronti del quale svolge una funzione separatrice tra madre e bambino; la dottoressa Pigozzi riconosce questa funzione nell’istanza anticipata dalla cadenza maschile che distacca più decisamente le vocali tra di loro, enfatizzando la funzione consonantica di separazione ritmica, rispetto a quella di legame tra le vocali. La madre, infatti, è ancorata a un linguaggio emotivo e intimo, è tesa a farsi capire e a capire il piccolo, il padre invece resta in attesa di una risposta, di un’azione da parte del figlio. “L’analisi del linguaggio paterno mostra che sono più direttivi, dal momento che la loro richiesta riguarda quasi esclusivamente la realizzazione di un compito. Ripetono meno delle madri le parole del bambino e sono meno disponibili a ciò che lui può percepire” (4). I padri sono meno disponibili anche a capire cosa dice il piccolo e non riescono facilmente a interpretare le sue prime storpiate parole; così chiedono spesso di ripetere – “Cosa? Che cosa dici?”-, aumentando la difficoltà della comunicazione. Con questa modalità costringono il bimbo a utilizzare un linguaggio più comprensibile, “ per un interlocutore meno complice della madre”, e quindi a favorire uno sviluppo più chiaro dello stesso, facilitandone l’apprendimento. Il linguaggio dei padri è meno familiare e comune rispetto a quello delle madri; è caratterizzato dalla scelta di parole tecniche o dalla parola esatta, piuttosto che un’altra che non lo è ma che fa parte del vocabolario del bambino (5) E’ così che il padre garantisce un orizzonte linguistico che va oltre la madre, che esce dall’involucro sonoro mamma-figlio, costringendo il bimbo a rinunciare ad un modo di esprimersi infantile, per tendere alla comprensibilità nella produzione linguistica.
CANTAMI O PAPA’!
Quando il papà canta per il suo piccolo sperimenta che attraverso semplici giochi può vivere un contatto diretto e profondo, collocandosi così al centro della relazione con funzioni educative e affettive diverse dalla madre, ma altrettanto indispensabili. Il materiale sonoro si rivela “oggetto” straordinario per potenziare e favorire la relazione genitoriale e strumento assolutamente adeguato per interagire, quando il bimbo è ancora molto piccolo. La canzoni che trovate in “CANTAMI O MAMMA” sono strumento di mediazioni perfetti, attraverso le quali giocarsi e giocare; infatti, ogni canto–gioco permette di costruire un percorso ludico–educativo a favore più degli adulti che dei piccoli, poiché i papà si possono dedicare interamente ai figli, risvegliando in se stessi emozioni sopite e sepolte nella propria infanzia, rivisitando il rapporto con il proprio padre e dunque riflettendo sul proprio ruolo genitoriale. Le canzoni-gioco che più si addicano alla modalità di gioco paterne sono quelle in cui si fa saltare il piccolo sulle ginocchia dell’adulto, che contemplano movimenti decisi ed energici, che lanciano il bimbo, lo riprendo, lo fanno volare, invitano a sollevarlo, lo destabilizzano per poi rassicuralo, fingono di farlo cadere, che favoriscono manipolazioni fisiche e corporee. In queste modalità di gioco si palesa la stessa necessità fisica e corporea, la stessa ricerca di contatto che ha guidato e permesso l’incontro e la relazione padre–figlio durante la gravidanza, quando la percezione dei movimenti fetali ha dato concretezza all’attesa e ha avviato la conoscenza e la comunicazione tra padre e figlio. Il piccolo con il papà ha modo di sperimentare una modalità di gioco diversa da quella materna, più contenuta, incoraggiante e rassicurante. Il padre, invece, disattende le aspettative, risulta dispettoso, destabilizzante, incita e manifesta atteggiamenti di pretesa, tanto da introdurre nella relazione “un modo di comunicare meno compiacente e più sociale”, teso a incoraggiare e agevolare la conquista della fiducia in se stessi e l’apertura verso gli altri. (6)
Lavoro tratto dal libro “Cantami o mamma”.
(1) NATHANIELSZ P.W., Un tempo per nascere, Bollati Boringhieri, Torino 1996
(2) BENASSI E., Aspettar cantando: la voce nella scena degli affetti prenatali, in “Musica e terapia, Quaderni italiani di Musicoterapia”, Edizioni Cosmopolis, Torino, 1998 PP. 351-358.
(3) PIGOZZI L., A nuda voce. Vocalità, inconscio, sessualità. Torino, Antigone, 2008
(4) ANTIER E., Elogio della madre. Riscoprire l’importanza dell’istinto materno nella crescita dei figli, Mondandori, Milano 2001
(5) BERTAMINI D. – IACCHIA E. – RINALDI S. – REZZONICO G., Gioco, socialità e attaccamento nell’esperienza infantile. Milano, Franco Angeli, 2009
(6) BERTAMINI D. – IACCHIA E. – RINALDI S. – REZZONICO G., Gioco, socialità e attaccamento nell’esperienza infantile. Milano, Franco Angeli, 2009